RAUMDRAMATURGIE
Andrea Cusumano
L’altare diventa così un microcosmo, che esiste in uno spazio e in un tempo mistici, qualitativamente distinti dallo spazio e dal tempo profani. Chi dice costruzione di un altare dice insieme ripetizione della cosmogonia.
(Mircea Eliade, Trattato , p. 338)
La drammaturgia dello spazio è la chiave di volta del mio progetto di Gesamtkunstwerk.
Viene per la prima volta fuori in modo compiuto nel 2003 quando, dopo una parabola abbastanza lunga in Austria, mi trasferisco a Londra per studiare al Central Saint Martins ed indagare il rapporto tra le mie installazioni e la drammaturgia. E’ in particolare il regista irlandese Pete Brooks, direttore del MA Scenography a pormi questa domanda: <<Hai mai immaginato di dare una dimensione diacronica al tuo lavoro sullo spazio?>>. Sino ad allora ho avuto scarso interesse per il teatro, e tuttavia l’esplorazione del potenziale drammaturgico dello spazio era presente già in nuce nel progetto delle Installazioni dei Morti che avevo portato avanti durante tutti gli anni ’90.
L’idea delle Installazioni era nata a Salisburgo nel ’93, durante il corso di pittura gestuale di Hermann Nitsch. Lui era molto metodico nel suo modo d’insegnare e concepiva quel corso in particolare come un’esperienza di disciplina ed ascesi, pragmatica e meditativa al contempo. Non era possibile fare altro che dipingere o uscire dagli argini della gestualità e dalla corporeità. Doveva essere un’esperienza pittorica intensa, immersiva, totale. Tuttavia Nitsch intuì che avevo necessità di superare il limite della tela e mi suggerì di utilizzare lo spazio per esplorare la tridimensionalità, e di confrontarmi con il lavoro di Wolf Vostell ed Edward Kienholz. Mi sentii liberato, ma al contempo un po’ disorientato. Ricordo che decisi di prendere una pausa per fare una lunga passeggiata al cimitero monumentale di Salisburgo. Restai molto affascinato dalla cura posta a quelle tombe, dalla narrazione che scaturiva sulla vita di quelle persone. Non so bene il motivo ma questa visita che feci in rigorosissimo silenzio prestando attenzione a qualsiasi piccolo rumore, odore o stimolo, mi portò alla memoria un capitolo di Narciso e Boccadoro di Hermann Hesse. Nel suo peregrinare Boccadoro si trova in un villaggio colpito dalla peste. Entrando in una casa di campagna trova tutti morti, ed ha la sensazione di girare per quelle stanze con i corpi fermi nelle loro pose quotidiane, in silenziosa sospensione. Provai qualcosa di simile da bambino visitando Pompei per la prima volta, di fronte a quei corpi bloccati per sempre nel gesso. Il risultato di quell’intuizione fu un primo prototipo d’intallazione che realizzai nelle kasematten del Castello di Hohensalzburg. Un lavoro che riproduceva quella sensazione di morte, di silenzio, di contemplazione extrasensoriale, e di sinestesia. Feci col gesso e dei vecchi stracci la scultura di un infante morto, e la collocai sotto una iuta imbrattata di terra, pigmenti e chiodi. Dentro la iuta infilai una bottiglietta con dell’acqua lasciandola lentamente gocciolare sul corpicino del bimbo sotto: suono, odore, rumore e immagine.
Di quel lavoro non resta nulla se non due foto di scarsa qualità, ma da quell’esperienza nacque l’idea dell’Installazione dei Morti: Rumore o Suono del Silenzio, attraverso cui, per tutti gli anni novanta, ho provato a valicare i limiti imposti dalla scultura in favore di una sorta di teatro statico ed immersivo, con un approccio rituale allo spazio simile ai Sacri Monti piemontesi e lombardi.
Per l’Installazione nella chiesetta medievale di S. Nicolò del Gurgo a Palermo, costruii degli ambienti domestici collocandovi le sculture dei miei morti. Il primo nucleo scultoreo che avevo realizzato era fortemente simbolico e rappresentava un trittico della nascita e della morte. Una grande croce a sagoma medievale al cui interno vi era un maglione imbrattato di colore. Sotto una donna partoriente seduta con le cosce divaricate, ed un uomo seduto difronte con il sangue che gli colava dalla bocca simboleggiando una castrazione orale. Le due figure una difronte all’altra generavano un rimpallo di sguardi senza via di uscita, ma tale simmetria era rotta da due gambe in gesso che spezzavano quel circolo vizioso. Avevo disegnato numerose bozze del progetto descrivendo meticolosamente l’uso dello spazio, degli arredi, della fruizione ed orientamento del pubblico, degli odori, dei rumori e dei suoni. Ritengo che si possano considerare le mie prime partiture topografiche sull’uso drammaturgico dello spazio.
Dopo la grande Installazione dei Morti di San Nicolò del Gurgo realizzai altre 12 Installazioni site-specific dello stesso ciclo. L’ultima nel 2004 a Londra dove, come ho scritto prima, iniziai ad indagare il rapporto tra le installazioni e la drammaturgia. Mi misi dunque a studiare il significato e le tecniche di una drammaturgia intesa non come scrittura teatrale, ma come costruzione di senso attraverso l’organizzazione del tempo all’interno di uno spazio performativo. Cominciai dunque ad esplorare il potenziale drammaturgico dello spazio attraverso l’introduzione di elementi performativi e superando l’idea di un teatro immobile in cui era il movimento dello spettatore a determinare una fruizione diacronica.
La mia ricerca installativa e quella performativa si erano di fatto fuse in un’unico progetto di ricerca in cui provavo a costruire strutture drammaturgiche complesse in grado di elaborare entrambi i linguaggi. Iniziai ad esplorare un metodo che consentisse di utilizzare lo spazio come innesco per l’accadimento performativo, ed i miei primi esperimenti in tale direzione ebbero un approccio piuttosto paradossale. In Something about Lysistrata ad esempio esploravo il potenziale drammaturgico e performativo dello spazio attraverso un metodo a ritroso. Avevo chiesto infatti ai partecipanti al laboratorio di costruire degli spazi con la sola regola di creare luoghi abitabili e non oggetti scultorei, dei luoghi cioè che potessero essere funzionali a qualche azione. Il processo fu costruito a step, e man mano che utilizzavamo quegli spazi ne delineavamo l’identità. Un’interpretazione dello spazio ex-post, che ci portò a leggere quello spazio da noi costruito come una città, con un suo centro, alcuni sui luoghi privati, dei luoghi pubblici ed altri luoghi sacri. Solo al termine del processo decidemmo che quella sarebbe stata la scenografia per un lavoro su Lisistrata. Ne venne fuori una performance immersiva la cui drammaturgia fu ispirata dallo spazio. Lo spazio insomma usato come una ‘emergenza’ piuttosto che come un luogo disegnato per qualcosa di predeterminato, pre-scritto. Tale emergenza diventava epifanica nel momento in cui si risolveva in un’azione performativa.
Fu tuttavia a seguito delle mie ricerche sul lavoro di Tadeusz Kantor ed il Cricot 2 che il mio lavoro performativo diventò più articolato e con una struttura drammaturgica via via più organizzata. A Cracovia visitai la Cricoteka studiandone l’archivio, i testi, le videoregistrazioni e grazie alla loro generosa collaborazione ebbi la possibilità di esplorare gli oggetti e le scene in modo molto approfondito. Oggi la Cricoteka è un grande museo ma allora, agli inizi degli anni 2000, era una associazione di spazi tra cui un ufficio in Ulica Szczepanska, e la Galeria Krzysztofory dove sono stati provati e presentati alcuni dei più celebri spettacoli del Novecento, come la Gallinella acquatica, La Classe Morta o Wielopole Wielopole. Vi girai il corto un histoire d’amour dove documentavo questo primo momento d’incontro col lavoro di Kantor. Ma fu Mira Rychlicka, straordinaria ex attrice del Cricot 2, a farmi da strada maestra per il mondo del teatro. Insieme mettemmo su un laboratorio di tre mesi alla Galeria Krzysztofory, presentando poi uno spettacolo ispirato a Le boteghe color Cannella di Bruno Schulz. In quattro anni realizzammo gli spettacoli Drabina Jakuba, Tumor Foderato d’infanzia (una mia reinterpretazione de La Classe Morta a partire dal personaggio di Tumor Musgowicz), ed Un funerale per Don Quijote ispirato a Cosmos di Witold Gombrowicz. Dopo la morte di Mira elaborai ulteriormente le tecniche di drammaturgia applicata allo spazio ed agli oggetti realizzando in particolare tre spettacoli nel Regno Unito: The bitter belief of Cotrone the Magician, Clover’s lost petal e Petit Cheval Blanc.
Dall’esperienza teatrale imparai soprattutto a dare una struttura drammaturgica alle mie performances creando una forma ibrida di live-art e visual theatre. Il mio ultimo lavoro TRAGÖDIA, è un progetto performativo in quattro atti ispirato a quattro tragedie classiche (Le Baccanti, Ippolito, Medea, Antigone). Ogni atto è a sua volta ispirato a quattro tradizioni performative del Kerala ed al loro utilizzo drammaturgico dello spazio (rispettivamente Theyyam, Kathakali, Tholpavakoothu, Koodiyattam). In questi ultimi lavori ho ulteriormente elaborato il tema della drammaturgia dello spazio attraverso delle partiture sinottiche che includono oltre al testo, il suono e le azioni sceniche, anche delle indicazioni sulla funzione drammaturgica dello spazio.
L’esplorazione della drammaturgia dello spazio ha anche applicazioni speculative, nel senso che oltre all’applicazione pratica si tratta di una disciplina che consente di analizzare un testo da un punto di vista delle dinamiche spaziali. Non mi riferisco però ad una semplice mappatura dei luoghi presenti o raccontati in un testo, quanto ad un’analisi delle dinamiche d’interazione tra gli spazi la cui lettura e codificazione può diventare una chiave di volta drammaturgica. Queste dinamiche si riferiscono agli spazi inquanto luoghi dell’azione drammatica e non necessariamente luoghi fisici, e sono determinati dalla narrazione più che dai fatti. Ad esempio potrebbe essere uno spazio psicologico, un luogo da cui si percepisce la prospettiva di un personaggio, o ancora un luogo funzionale ad un certo tipo d’interazione. In altri termini è possibile leggere un testo attraverso una serie di categorie spaziali, ed è possibile costruire una drammaturgia a partire dalle interazioni tra queste categorie di spazi.
E’ un esercizio che è applicabile a qualsiasi testo, non necessariamente drammaturgico. Nella mia esperienza di docente ad esempio ho utilizzato degli articoli di giornale per far esercitare i miei studenti. La cosa curiosa è che lo stesso testo se utilizzato da gruppi diversi, può portare a soluzioni drammaturgiche del tutto diverse e talvolta anche opposte. Questo mi ha fatto riflettere sul fatto che la dimensione drammaturgica non sia in realtà una qualità del testo, quanto del racconto; ovvero delle scelte individuali attraverso cui editiamo un testo e decidiamo di raccontarlo. Una volta individuati questi spazi drammaturgici, e la loro modalità d’interazione, è possibile codificare il tutto in una topografia. In sostanza uno schema statico che però descrive una dinamica drammaturgica. Questo tipo di struttura della drammaturgia dello spazio diventa dunque un potenziale strumento per la costruzione di una piecè teatrale o performativa ed un modo per costruire senso drammaturgico a partire dallo spazio, dalla sua idea. Non parlo dunque di un lavoro site-specific, né di un lavoro scenografico, ma di un lavoro registico e compositivo che utilizzi l’idea dello spazio come principale indicazione drammaturgica. Simili di strategie compositive si trovano ad esempio nel lavoro sui viewpoint di Anne Bogart, ma sono presenti anche in pratiche performative precedenti. Basti ad esempio pesare agli esperimenti sulle griglie spaziali di Oscar Schlemmer, a Quad di Becket, al lavoro di Dalcroze con Appia, per non citare gran parte del lavoro sull’uso scenico della biomeccanica in Mejerchol’d.
Ad ogni modo nella mia prassi la drammaturgia dello spazio è stata uno strumento estremamente utile, e direi decisivo, per poter valicare i limiti imposti da determinati linguaggi e portare avanti una ricerca transdisciplinare coerente. Lo spazio è stato il mio spirito guida in questi circa trent’anni di ricerca, ed infondo la chiave di volta di una sperimentazione che è sempre oscillante tra l’esigenza pittorica di cristallizzare le immagini e quella di farle esplodere in una dinamica drammaturgica. Il legame tra pittura e teatro mi affascina inquanto necessità imperitura dell’essere umano di danzare per poi di rappresentarne il gesto, di cacciare per poi rappresentarne l’atto, di navigare per poi rappresentare il viaggio. Azione ed immagine sono da sempre legate da un filo rosso sottilissimo eppure nella pratica quotidiana dell’arte e del teatro questo legame viene quasi considerato osceno. Io credo invece che riuscire a sciogliere i nodi che aggrovigliano tale filo -ormai divenuto matassa- sia assolutamente necessario e la mia ricerca sulla drammaturgia dello spazio mi ha aiutato in questa direzione. Nel mio lavoro ha certamente avuto un valore metodologico, ma non ho dubbi nel ritenere che il cuore della mia ricerca sullo spazio abbia a che fare con la magia. Lo spazio performativo per me è uno spazio magico, forse ieorofanico, e certamente una superstizione. E’ un luogo in cui la bellezza dell’universo si riproduce per magia, e per un tempo circoscritto, in poesia umana. Questo tema si lega per altro ad un’altra ossessione della mia ricerca che è il mascheramento. Non ho interesse nella capacità della maschera di rappresentare, ma nella capacità di trasformare. La maschera come processo dunque, come medium, come strumento di passaggio magico e ierofanico.
Spazio, morte e maschera sono probabilmente le tre parole che meglio sintetizzano il mio lavoro ed in questo credo si possa riscontrare quanto la mia anima transpersonale sia di fatto antica, mediterranea e pagana.
The written word is sacred, to be sure, but no more so than the spoken word, the chanted or intoned word, and the performed word.
Susan L. Schwartz
Foto Mistelbach Urbaniak